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Emmanuel Innocenti, ‘convincerò tutti che Gonzaga è il mio posto’

Autore: Raffaele Fante
Data: 9 Giu, 2025

C’è qualcuno a Spokane che non crede in lui ed Emmanuel Innocenti è pronto a fargli cambiare idea. Al suo secondo anno in una big del college basket come Gonzaga, il ragazzo italiano classe 2004 vuole diventare uno dei punti fermi di coach Mark Few.

Dalla Costa d’Avorio alle valli bergamasche per poi trovare casa e scudetti alla Stella Azzurra di Roma, Innocenti a 18 anni ha deciso di attraversare l’oceano. Ecco il racconto dei suoi due anni trascorsi negli Stati Uniti passando dal confine con il Messico a quello con il Canada, prima in un piccolo college del Texas e poi in una potenza dell’Ncaa nello stato di Washington.

Quando hai deciso di andare in America?

Nei 4 anni passati a Roma non ci avevo mai pensato. E’ successo tutto dopo l’ultimo anno delle giovanili, ho chiacchierato con allenatori e agente che mi seguivano e mi hanno proposto questa cosa dei college anche se era tardi, era giugno-luglio e le squadre erano quasi tutte fatte. Ho deciso di andare a Tarleton State perchè era una delle poche opzioni che avevo e comunque volevo andare in America e quindi ho accettato

Tarleton State, ti sarai chiesto ‘cos’è, dov’è”?

Esatto, mi ricordo che in quel periodo avevo Jacksonville State e Tarleton State come opzioni e non conoscevo nessuna delle due. Mi sono fatto un po’ consigliare dagli allenatori per conoscere un po’ il programma, squadre, allenatori, poi ho scelto Tarleton State perchè mi sembrava più interessante

In Texas hai trovato Billy Gillispie, uno dei coach più controversi della D I, spesso criticato per i suoi modi eccentrici e spigolosi. Il tempo ha un po’ smussato il suo carattere o è ancora uno dei coach più duri che c’è?

Sinceramente, è il coach più duro che io abbia mai avuto. E’ una brava persona, è sempre stato corretto con tutti, solo che ha un po’ dei modi diciamo duri e soprattutto ti mette tanta pressione, ma in senso positivo. Non lo fa per metterti a disagio, più che altro vuole vederti reagire in un certo modo. Per lui conta molto, se riesci a gestire questa cosa, prendi la sua fiducia. E penso che con me sia andata bene

Quindi è un coach molto esigente che ti provoca un po’

Ti provoca tanto. Per esempio durante un allenamento, anche senza aver fatto niente di male, ti metteva con la squadra B solo per spronarti. Per me, che vengo dalla Stella dove c’è tanta competitività e ho avuto un allenatore come Germano (D’Arcangeli, a lungo anima della Stella) che ti mette tanta pressione, non è stato troppo difficile e poi sono uno molto competitivo: più mi provochi e più vado giù duro

Qual è stata la prima differenza che hai notato tra la pallacanestro italiana e quella americana?

La velocità di gioco. Qua vanno molto più veloci di quello a cui ero abituato io, sia nelle partite che avevo fatto a livello senior che a livello giovanile. In Europa penso l’attenzione sia più rivolta a capire il gioco e a mettersi nelle posizioni giuste, qua è molto fisico e molto veloce, bisogna prendere decisioni in poco tempo. Non c’è tutto quel IQ di basket, è molto più istintivo

 Ti ha un po’ aiutato aver vissuto parecchi anni alla Stella, che è una delle società italiane con un’organizzazione più simile ai college?

Sì, ho sempre detto che la Stella è stata determinante per il mio percorso sportivo. Vivi il basket a 360 gradi e mi ha aiutato molto nel passaggio che ho fatto dall’Italia all’America, non l’ho sofferto così tanto come potrebbe capitare a chi arriva da altri settori giovanili.

Hai fatto una buona stagione da freshman, quando hai deciso di trasferirti?

Già quando sono arrivato a Tarleton State, la mia intenzione non era proprio di rimanerci. Volevo usarlo come trampolino di lancio, vado là, mi faccio le ossa e dimostro che posso stare a questo livello. Finita la stagione sono stato contattato da Gonzaga, ho fatto un po’ di chiamate, mi hanno fatto vedere la struttura. La cosa che mi ha convinto di più è il modo in cui gestiscono lo sviluppo dei giocatori e lo staff tecnico, con Mark Few che è uno dei più importanti coach dell’Ncaa

Avevi altre opzioni?

Ho fatto visita a Saint Mary’s, ho avuto contatti con Kansas perchè Bill Self era un grande amico di Gillispie (suo assistant coach a Texas Tech) e poi qualche mid major come New Mexico, New Mexico State e Gcu. Ma a Kansas sarei dovuto andare lì, sedermi e vedere tutti gli altri giocare, mentre io cercavo un ambiente dove crescere e restare per i prossimi anni che mi rimangono al college

I soldi sono il grande nuovo protagonista di questo mondo, quanto peso hanno avuto e quanto è difficile gestire questo aspetto?

Non sono la cosa più importante nella scelta di una squadra, ma contano. Se ho due buone squadre con lo stesso minutaggio, scelgo quella che mi dà più soldi ma per me non è mai stata una questione di vita o morte, o mi dai più soldi o non rimango. E poi la gestione per noi international è più complicata, gli americani possono fare milioni mentre noi, se ci va bene, facciamo 500mila dollari (qui si spiega perchè). Questa differenza secondo me influisce molto anche sulla scelta della squadra, ma adesso sta migliorando, siamo più vicini alla parità tra internazionali e americani. Per ora però io posso prendere soldi dalla squadra, e non singolarmente e quindi è difficile raggiugere le somme degli americani. Quindi per gli internazionali questo aspetto non ti dà troppo alla testa, non vedi quelle somme che prendono gli altri.

A proposito di international, Gonzaga ha lunga storia di rectruit di giocatori non americani che vanno da Ronny Turiaf a Rui Hachimura e di solito con tutti vanno cauti e iniziano con poco minutaggio. La tua crescita è stata invece veloce già nel corso della prima stagione, come hai fatto?

Già prima di arrivare lì, sapevo che mi sarei dovuto guadagnare qualche minuto. C’erano molti prospetti Nba, gente che stava lì da anni e l’unico modo che avevo per guadagnarmi spazio era dimostrare al coach durante gli allenamenti che non ero venuto lì a sedermi un anno e aspettare il mio momento. Appena vedevo un’opportunità, me la prendevo, in allenamento andavo forte, marcavo sempre il più forte, ogni volta che mi chiedeva di fare qualcosa la facevo per prendere la sua fiducia, e piano piano mi ha dato più minuti

Ma quando sei arrivato, ti hanno prospettato un piano per la tua crescita spalmato su più anni?

Esatto, è stata anche la cosa  che mi ha convinto ad andare lì. Io non volevo andare in un posto dove restare o andarmene a seconda che giocassi bene o male, volevo andare in un programma deciso a puntare su di me facendomi crescere durante gli anni. Non pensavo di arrivare in un posto e diventare subito un fenomeno. e Gonzaga mi ha detto: ‘noi ti prendiamo, magari il primo anno va come va, però abbiamo un piano per te che si sviluppa in tre anni’, E a me era quello che interessava di più. Poi conoscendo la storia di Gonzaga, di giocatori che sono passati di lì anche internazionali che hanno giocato all’inizio magari due minuti e poi sono arrivati in Nba, ho pensato che quello era il percorso che volevo fare

Emmanuel Innocenti dopo aver vinto il torneo della Wcc

Com’è stato il tuo primo impatto con una delle più importanti università gesuite degli Stati Uniti?

Nella scelta di venire qui è stato importante anche il fatto che non è una scuola troppo grande e Spokane è una città piccola che ti permette di concentrarti di più sul basket. Sono molto religiosi, ma non ci sono regole particolarmente diverse da altri college

E com’è stato l’incontro con Mark Few, da oltre 25 anni allenatore dei Bulldogs e uno dei nomi più importanti dell’Ncaa?

Fin dal primo giorno Mark Few ti trasmette il senso dell’ambiente familiare. è tipo un papà, controlla come stai, vuol sapere la tua storia, da dove vieni, è uno molto aperto e molto diretto, se ti deve dire qualcosa, viene e te la dice, sincero sincero. Quello che colpisce di più è che, nonostante lo status che ha nel basket americano, è sempre disposto a parlare con i suoi giocatori, li mette nella situazione migliore, e vuole conoscere la storia di ognuno di noi e soprattutto trasmettere il senso di unità, magari facendo attività tutti insieme. Per esempio, l’anno scorso siamo andati tutti insieme nella sua casa estiva per una settimana per fare più gruppo

A inizio anno ha speso parole importanti per te, fatto decisamente insolito per Few soprattutto per giocatori appena arrivati.

Credo che il motivo principale sia la mia etica del lavoro. Dal primo giorno che sono arrivato qua, ho passato tantissimo tempo in palestra e poi sono arrivato durante l’estate con molta gente che non c’era, molti pensavano alle vacanze e io sono invece arrivato con la fame, sapendo di dovermi guadagnare il mio posto, e quindi durante gli allenamenti ho lavorato sempre al 100%

Com’è stata poi la stagione, tua e della squadra?

i primi mesi sono stati molto difficili per il periodo di adattamento da Tarleton State a Gonzaga. Qui il gioco è molto veloce, ci sono molte più letture e nel complesso è proprio un sistema di gioco molto diverso da molte altre squadre. Difensivamente mi sono sempre trovato a mio agio, è la parte che faccio meglio anche perchè lo stile difensivo assomiglia molto a quello della Stella. Per quanto riguarda la squadra, potevano fare meglio, abbiamo avuto tanti alti e bassi e più che altro avevamo tanti giocatori con grandi potenzialità, ma molti avevano bisogno della palla in mano. E soprattutto nei momenti in cui contava vincere, nessuno si preoccupava più di vincere ma era più devo segnare io e non lui, era diventata una situazione un po’ così. Verso metà stagione abbiamo avuto problemi difensivi, nessuno si preoccupava più della difesa ed era diventata una cosa tipo facciamo 90 punti e, anche se ne subiamo 88, vinciamo. Ma quando trovi squadre solide come Uconn, è difficile giocare con questa mentalità e da lì il mio ruolo era portare energia alla squadra, portare mentalità difensiva e quindi penso che sia stato il motivo per cui i miei minuti in campo sono aumentati

Quanto si sente la pressione a Gonzaga, è più fuori nel campus o all’interno della squadra?

La pressione è fuori, noi all’interno siamo sempre stati ‘ok, abbiamo fatto una partita di merda ma domani è un altro giorno e dobbiamo fare meglio, punto’. E quello che stava fuori non ci interessava più di tanto, anche gli allenatori continuavano a ripetercelo, ‘quello che sta fuori, lasciatelo fuori’. Ovviamente a Gonzaga non sei in una mid major, quindi hai molta più pressione rispetto ad altre squadre in America

E a proposito di pressione, quanto pesa essere una big del college basket che però un titolo non l’ha mai vinto?

Soprattutto l ‘anno scorso, con la squadra che avevamo, molti studenti dicevano ‘quest’anno dobbiamo andare in finale e vincere, abbiamo la squadra per farlo, abbiamo questo e abbiamo quello’. Già dall’estate si sentiva la pressione di vincere a tutti i costi

Com’è stata la tua prima March Madness?

E’ stata una grande esperienza, avevo molta pressione. Nell’allenamento che abbiamo fatto per preparare la prima partita anche se era a porte chiuse, mi tremavano le gambe, stavo pensando già alla partita del giorno dopo. E’ stata un’esperienza unica, il palazzo sempre pieno, un clima molto caldo

Avete perso contro Houston, che è poi arrivata in finale. Qualche rimpianto per quella partita?

Sapevamo che era una squadra difensivamente tra le migliori, dovevamo fare un po’ di più offensivamente. Loro erano molto solidi però eravamo convinti di poterli battere. Hanno fatto una partita praticamente perfetta a parte gli ultimi minuti in cui hanno un po’ mollato. Noi siamo stati bravi a non disperarci quando siamo finiti sotto di 10, ma ci siamo svegliati troppo tardi e con squadre di questo livello non te lo puoi permettere.

Hai affrontato la miglior difesa della nazione, com’è?

Asfissiante, più ti senti libero più in realtà sei marcato. Ti senti libero e poi ti trovi davanti uno così dal nulla. C’era una grande organizzazione, sono una squadra che comunica molto ed è qualcosa che io non ho visto spesso. Soprattutto il loro coach dà indicazioni che loro eseguono perfettamente, sono molto fisici. Non sono una squadra che mette pressione ma ti sta a un braccio di distanza, loro ti stanno proprio addosso, tutto il tempo. E poi ci hanno distrutto a rimbalzo, distrutto

Come sarà la squadra della prossima stagione?

Vediamo se Grant Foster è eleggibile o meno, ma nel complesso l’anno scorso la squadra a livello individuale era più forte, ma adesso siamo più gruppo, abbiamo più leader. L’anno scorso avevamo giocatori importanti come Ryan Nembhard o Khalif Battle, ma nei momenti decisivi non tiravano fuori la loro leadership. Questa squadra la vedo bene, giochiamo uno per l’altro. Per quanto riguarda me, so che avrò un ruolo importante e che dovrò fare uno step in più rispetto all’anno scorso soprattutto offensivamente. Per questo, mentre gli altri erano in vacanza, io ero qua ad allenarmi. Sono consapevole di questa cosa, voglio raggiungere questo obiettivo e dimostrare a tutti quelli che non hanno creduto in me che posso stare a questo livello e posso essere un giocatore importante anche in attacco

Chi non ha creduto in te?

Giornalisti, in molti hanno scritto che sono un buon giocatore, ma offensivamente sono nel posto giusto ma non sono una delle opzioni per Gonzaga. Io l’ho presa sul personale e ci sto lavorando: tre giorni dopo la fine della stagione, ero in palestra

Cosa devi fare per diventare un giocatore più completo?

Migliorare le percentuali di tiro, devo tirare almeno col 40% da 3 e, visto che abbiamo due play e uno è nuovo, devo portare un po’ su la palla, essere a mio agio nel portare avanti la palla, e soprattutto giocare il pick and roll facendo le giuste letture

Dopo Gonzaga dove andrai?

Come tutti i giocatori a questo livello, sogno l’Nba. So che la strada è molto lunga, ho molte cose da fare ma ho ancora due anni, forse tre di college e il mio obiettivo è rimanere a Gonzaga e finire il mio percorso qua. Il sogno è l’Nba però non rifiuterei neanche l’Europa anche perchè, quando ero più piccolo, il mio sogno era giocare in Eurolega non in Nba, poi piano piano è cambiato.

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