Nike Hoop Summit, prima azione d’attacco di Team Usa. AJ Dybantsa prende palla sul lato destro del campo, parte deciso in palleggio con la sinistra – presunta mano debole, ma ci torneremo – punta il canestro e segna. Con fallo. Dame Sarr è il difensore che ha provato a fermarlo, ma ha fatto la fine di tutti gli altri giocatori italiani che sono stati asfaltati dal talento di BYU nella finale del Mondiale Under 17. Giusto per chiarire: Sarr ha fatto un’ottima partita e la nazionale italiana un meraviglioso torneo in Turchia e non sono e non saranno certo gli unici incapaci di fermare Dybantsa. Perché il ragazzo del Massachussets è incontenibile.
Tutto merito di Spiderman
Geni atletici meravigliosi da madre giamaicana e padre congolese, 204 centimetri di cattiveria cestistica e talento, AJ Dybantsa a 18 anni ha già fatto il giro degli Stati Uniti ed è pronto a prendere il testimone di Cooper Flagg come unica e incontrastata star del college basket. Il suo viaggio è partito da Brockton, 30 km a sud di Boston, chiamata ‘the city of Champions’ perché lì è nato Rocky Marciano e lì è cresciuto Marvin Hagler. E lì è nato, è cresciuto e ha iniziato a giocare Anicet Junior detto AJ, sotto la guida del padre Anicet detto Ace: nato a Brazzaville con 10 tra fratelli e sorelle, emigrato prima in Francia e poi in America dove ha fatto mille lavori diversi, è lui il motore della macchina Dybantsa, quello che ha spinto un bambino che amava alla follia Spiderman a giocare a basket.

AJ Dybantsa e spiderman
Come? Comprandogli un minicanestro con la faccia dell’Uomo Ragno sul minitabellone. E poi rompendogli le palle senza pietà, costringendolo tra le altre cose a imparare a palleggiare con la sinistra. A 5 anni. “Why not use my good hand?”, chiedeva giustamente il piccolo AJ. “Someday you’ll understand”, la risposta del padre. Ora ha capito e Dame Sarr è uno dei tanti che ne ha subito le conseguenze.
Dai pannolini al portafoglio
Nelle scuole del Massachussets si fa notare subito ed ecco che arrivano offerte interessanti da vari licei. Ormai siamo in epoca Nil e i soldi girano non solo per i giocatori del college, ma anche per quelli delle high school, con meccanismi non troppo diversi da quelli del transfer portal dell’Ncaa: si passa un anno in un posto e poi si monetizza in un altro ancora e così via. AJ attraversa tutti gli Stati Uniti e va alla Prolific Prep di Napa, in California, e poi passa alla Utah Prep, di fronte al Zion National Park. Ha 17 anni, le sue magliette vengono vendute a 85 dollari l’una ed è tempo di scegliere il college. La prima offerta, in realtà, è arrivata da tempo perché Boston College si fa vivo quando AJ è un freshman all’high school.
Di offerte ne arriveranno altre 35, ma la rosa finale comprende solo 4 università: North Carolina, Kansas, Alabama e BYU. La famiglia Dybantsa chiede a tutte la stessa cifra: 5 milioni di dollari, non un penny di più, non uno di meno. E se avessero chiesto di più? “We would’ve gotten more, way more”, risponde Ace che ha smesso di fare il vigilantes all’interno della Boston University e ormai si occupa a tempo pieno degli affari del figlio. “He’s getting older, and all people see on him are dollar signs, Somebody’s got to protect him. Who can do a better job than the guy who changed his diapers?”.
Altro che cambiare pannolini, ora Ace deve giusto far andare la calcolatrice. Il figlio ha già firmato contratti con colossi come Nike e Red Bull e adesso deve scegliere tra due blue blood, un’università in grande ascesa reduce da una Final Four e un’Elite eight e un college mormone che non ha mai vinto nulla e il cui honor code vieta anche di bere un caffè.
Il ponte verso l’Nba
Ovviamente sceglie BYU. Perché? Ma la risposta è semplice, perché il coach di Brigham Young è Kevin Young, giovane ex assistant coach dei 76ers e soprattutto dei Suns. “My ultimate goal is to get to the NBA and he coached my favorite player of all time, Kevin Durant”, la semplice spiegazione di Dybantsa. Young ha allenato Kevin Durant (e Devin Booker) a Phoenix, ha un approccio e uno stile di gioco completamente orientato sull’Nba, così come il suo staff è pieno di assistenti e analisti tutti con un passato nei pro che dai pro hanno preso tutto, dall’uso delle metriche avanzate ai metodi di allenamento alle diete per i giocatori.

Kevin Young
Five out offense, ritmo sempre forsennato, tanti tiri da 3 o lay up secondo il mantra “rim-and-3 offense”, pick and roll molto alti per iniziare l’attacco allargando il più possibile il campo: lo stile di Young ha funzionato subito e BYU è tornata alle Sweet 16 dopo 14 anni di assenza. AJ Dybantsa non poteva trovare un sistema più adatto al suo gioco: l’anno al college d’altronde sarà di puro transito verso l’Nba ed ecco perché è rimasto in mezzo alle montagne dello Utah e andrà in un’università che segue le regole rigidissime della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni che nulla ha a che vedere con la sua educazione e dove gli studenti afroamericani sono attorno a un misero 1%.
“I am mad on the court”
Non c’è alcun dubbio infatti che il suo stile di gioco si adatti perfettamente a quello di Kevin Young. Ma ci sono un sacco di ragazzini di 18 anni che non vedono l’ora di correre e tirare da 3. Quello che davvero fa la differenza nell’approccio di AJ Dybantsa è la cattiveria agonistica che ci mette in campo, l’approccio ipercompetitivo con cui affronta qualsiasi partita, la voglia di fare un canestro dopo l’altro e poi un altro ancora. Questo fa la differenza tra un ragazzo di talento e un vincente. Ama il contatto, lo cerca nonostante non sia certo un colosso, e ha la faccia tosta (o arrogante, a seconda che ci giochi con o contro) di chi vuole dominare l’avversario. “If you see me on the court, it’s like a horrible representation of who I really am, I am mad on the court. I play angry. I‘m very passionate”.
Fuori dal campo è tutta un’altra cosa, e infatti è finito nell’università che concede (e tollera) meno distrazioni negli Stati Uniti: “Off the court, I‘m just chill. I think I‘m funny. A lot of people laugh, but I might just be corny. I don’t know”. Un tranquillone insomma, uno a cui non interessano granchè manco i videogiochi perchè in fondo la pallacanestro è metà della sua vita e l’altra metà è la sua famiglia.
A 18 anni nessun giocatore è fatto e finito e margini di miglioramento ce ne sono decisamente anche per lui. Ma non ci sono pecche, lacune o difetti veri perchè sa fare bene pressochè tutto, dopo aver lavorato a lungo soprattutto sul suo tiro da 3 visto che la fisicità dalle parti del ferro fa parte naturalmente del suo gioco. Senza ombra di dubbio è il giocatore di college basket che guadagna più soldi senza aver ancora giocato un minuto di college basket. Ma è l’Nba che lo aspetta a braccia aperte: Lebron James, Kevin Durant e Steph Curry hanno tutti più di 35 anni e non si possono solo avere campioni slavi alla Nikola Jokic o Luka Doncic o giovani di grande talento comunque europei come Victor Wembanyama. Ci vuole una stella americana. AJ Dybantsa ha tutto per esserlo.